Il Centro con La Lectura Dantis Scaligera si propone di contribuire allo sviluppo e all’apprendimento degli studi danteschi in vista del Settimo Centenario della morte del Poeta.

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Giovedì 15 Dicembre 2011, 16.30

Paradiso, IX

prof. Marco Ariani (Università degli Studi Roma Tre)

Anche nel cielo di Venere, come in quello di Mercurio, i beati si presentano al pellegrino Dante avvolti in una veste di luce, che li nasconde ai suoi occhi con i singolari effetti di umbrae lucis indotti, sul fondamento della mistica dionisiana della lux tenebrosa, dall’immaginario visivo escogitato dal poeta per figurare il paradiso. Quali umbriferi prefazi della loro vera essenza, gli spiriti sono nondimeno gli abbaglianti veicoli di una luce gloriosamente pervasiva dell’intero spazio figurabile offerto allo scriba Dei: è la metafisica della luce a regolare comunque l’architettura del tempio paradisiaco e delle sue ripide scale di fuoco. Dante li figura fasciati da una seta accecante (Paradiso, VIII, 54): è il corpo glorioso di resurrezione come una sostanza preziosa, divinamente intessuta dalla luce fatta materia sottile, filigranata attorno all’essenza spirituale annidatavi. Questa semantica dell’oggetto prezioso trova, nell’inesauribile inventio dantesca, anche la squisitezza di immagini gemmee, caratterizzanti le parvenze beate con un’affabulazione minerale, cristallini fulgori che abbagliano e feriscono con sinestetica durezza gli organi ancora umani del viator.

È Cunizza da Romano, nel canto IX, a presentare, dal «profondo» del suo manto di luce, il trovatore provenzale Folchetto da Marsiglia come una «luculenta e cara gioia» (Paradiso, IX, 37), una gemma dunque bella e copiosa di luce, che, al suo rivolgersi al pellegrino, gli «si fece in vista/qual fin balasso in che lo sol percuota» (vv. 68-69): un rubino incendiato dalla luce eliaca. Con una simile imagery Dante immette la sua inventio nell’alveo di una tradizione di matrice biblica, per la quale lo splendore degli angeli è paragonato a gemme: da qui l’immagine della gemmea stola induta, alla quale Dante si applica con virtuosistiche risorse formali gravide di implicazioni teologali e mistiche. Nel «profondo» della luce il canto IX squaderna oscure profezie e invettive: la vaticinante Cunizza fa irrompere nella pace paradisiaca l’orrore delle stragi di Ezzelino da Romano, Folchetto denuncia l’avidità degli ecclesiastici. Un impasto complesso, di luci e ombre, di mistica ascesi e violenza cronachistica: con la trilogia di Cacciaguida, questo canto condivide una venatura rara nel Paradiso, il tenebroso incombere della storia sull’ardua ascesa mistica del pellegrino.

Opere di pregio

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